Le pareti cariche di libri della prima sala della Libreria Antiquaria Minerva introducono idealmente il visitatore verso la mostra di Gilbert Herreyns.
Sono volumi, tanti vecchi di secoli, che parlano d’arte e artisti, di letteratura, di scienze.
Opere su carta che dialogano con le carte, le tele, i legni, le corde che compongono le opere presenti nelle sale successive realizzate da un artista nato in Belgio – tra gli antenati quel pittore Herreyns che riuscì a nascondere alle armate napoleoniche fameliche d’arte un capolavoro di Quentin Massys ad Anversa nel 1798 – ma dagli inizi degli anni ’70 di casa a Formentera e Ibiza.
Un’artista che ha attraversato l’Europa, è stato alcuni anni a New York, per incontrare il Mediterraneo. Quando ha una pausa dal lavoro in uno studio che si affaccia sul blu del mare, Gilbert si siede su una sdraio tra gli alberi e legge.
Dai libri, dal luogo della mostra, dall’arte prende il via la nostra conversazione.
Roberto Nardi – Gilbert, il libro è uno strumento del sapere, per fare esperienza del mondo. E l’arte?
Gilbert Herreyns – Il libro è uno strumento per conoscere ma anche per conoscersi. Così come tutte le manifestazioni artistiche.
R.N. – Da alcuni anni lavori sia con la pittura sia con la scultura. In entrambi i casi sembra che tu operi un lavoro di scavo, di sottrazione, di ricerca dell’essenza.
G.H. – La ricerca dell’essenza è molto importante, evidentemente. È il lavoro sull’io e su quello che ci è vicino. L’essenza è, forse, un po’ quello che rimane quando abbiamo tolto o abbandonato tutto? La ricerca non è la parola giusta per gli artisti perché sottintende spesso una volontà cartesiana. Sono le azioni successive, le ripetizioni infinite del fare che portano a un risultato. Questi momenti creativi sono espressi attraverso mezzi artistici e sono i gradi per avvicinarsi piano piano al mistero sconosciuto dell’inizio e che ci commuove sempre.
R.N. – Temi centrali negli ultimi anni, anche nei titoli delle tue opere, sono la terra e il cielo. Cosa ti ha portato a questa scelta?
G.H. – Sono sempre stato attratto dall’argomento del cielo e della terra. Ad esempio, nel 1997 ho fatto una mostra intera intitolata “Mirada cap a dalt” (Lo sguardo verso l’alto). Sarebbe meglio parlare di direzioni, alto e basso, piuttosto che di cielo e terra. L’aspirazione verso l’alto è una costante nell’umanità. Il basso, la terra, ha specialmente attratto la mia attenzione dal momento in cui ho abbassato lo sguardo verso gli aghi di pino. Ma uno non esclude l’altro. Va e viene tra alto e basso, Nord e Sud.
R.N.- Luce, colore, segno, natura: che ruolo hanno nel tuo lavoro d’artista? In quale ordine metteresti queste componenti? Come arriva la natura ad essere parte della tua opera?
G.H. – La luce, il colore, il segno, la natura, hanno tutti un’importanza nel mio lavoro di artista e si manifestano in funzione delle tappe creative, in ordini diversi e variabili a seconda del momento. Un giorno del 2012, andando verso lo studio di Formentera, il Taller Blau, abbasso lo sguardo verso terra e vedo un tappeto di aghi di pino secchi. Incuriosito, li tocco e mi viene l’idea di incorporarli nel mio lavoro pittorico. Il processo inizia: prima l’integrazione nella pittura, poi prendono indipendenza e si trasformano in piccole sculture in monticelli d’aghi. Dall’ago di pino passo al ramo con un cambiamento di albero: la sabina, più resistente e flessibile che il pino. Realizzo dei cerchi usati per delle istallazioni, poi sculture più complesse, con rami e intrecci di corde.
R.N. – Le opere degli ultimi anni sono caratterizzate dalla presenza della croce, di un ripetersi infinito di croci. Nelle tue installazioni le croci sono a terra. Sono formate, e proiettano la loro ombra sul terreno, dalle corde che tengono uniti i rami incrociati di sabina. Anche i rami formano croci, ma sembrano dare l’immagine di un rifugio, di una casa dove trovare riparo, di una rigenerazione.
G.H. – Il segno della croce. Nella mia seconda mostra, nel 1965 nella galleria Saint Laurent di Bruxelles, utilizzo già il segno della croce in un modo costruito e geometrico. I colori sono forti e creano effetti ottici. Più tardi, con il mio arrivo nel Mediterraneo, interessato dall’Oriente, studio il simbolo de la croce (R. Guénon) e realizzo delle tele rappresentando labirinti formati da piccole croci che si sommano e che cambiano dimensioni. Il lavoro realizzato è geometrico e rigoroso. Colore rosso, ocra e nero su fondo blu oltremare. È esposto alla galleria Carl Van Der Voort nel 1973. Nel 1976 ripetizioni all’infinito di piccole croci a mano libera. A seguire le croci si trasformano in incroci. Nel 1990-95 c’è introduzione nella pittura di uno sfondo di forma umana in croce (Leonardo da Vinci). La forma è intera ma a volte parziale, e nelle ultime tele di questo periodo talvolta si trasforma in un uccello. In primo piano una texture è realizzata con degli incroci. Dopo, soltanto gli incroci rimarranno e basteranno come modo di espressione fino al 1993, inizio di una nuova tappa. Attualmente, ho recuperato il simbolo della croce grazie a una istallazione realizzata nella cappella di Sa Tanca, a Formentera. Il pavimento è coperto di piccole sculture in legno in forma di croce, come una manifestazione organica e un po’ selvaggia che esce dalla terra e che si organizza. L’immagine del rifugio, quella che tu suggerisci, è un’interpretazione valida come un’altra, ma preferisco l’uscita dalla terra. La parete del fondo è una pittura con un intreccio di croci dipinto in modo classico in azzurro e bianco (colori dell’alto?) che contrastano con il pavimento coperto di terra e di croci di legno. Insomma, perché la croce? Perché è il simbolo più importante di tutta la nostra umanità.
R.N. – Vorrei chiudere con una valutazione di carattere generale. Mi pare che la cifra comune del tuo lavoro sia la sperimentazione, che in quasi 60 anni di attività ci sia il costante anelito di un linguaggio nuovo, molto personale. Questo all’interno di un percorso che sente il richiamo di un astrattismo che sempre più ha fatto dialogare rigore ed emozione.
G.H. – È evidente che la ricerca di un linguaggio personale ha anche a che vedere con l’essenza. Ogni individuo è diverso e la sua manifestazione è l’originalità. (ritorno alle origini) L’astrazione è infatti un mezzo di espressione e non una finalità. E ognuno di noi sceglie il proprio mezzo liberamente. Dall’inizio, anche con i lavori geometrici, ho sempre insistito sul rapporto tra la spontaneità, l’intuizione, e la razionalità (espressa nel mio lavoro tramite una struttura visibile o soggiacente).
Dialogo tra Gilbert Herreyns e Roberto Nardi curatore della mostra.
Padova, 10 maggio, 2019